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TEN - DIECI
(TEN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 19 gennaio 2003
 
di Abbas Kiarostami, con Mania Akbari, Amin Maher, Mandana Sharbaf (Iran - Francia, 2002)
 
La storia è fatta di registi capaci di creare grandi film. E di cineasti (come Godard, come Robert Bresson al quale si pensa sovente qui) ai quali riesce di fare evolvere l'uso dell'immagine per spiegare il mondo. Abbas Kiarostami è uno di questi: e TEN uno dei suoi tentativi, forse il più estremo e significativo, destinato a riassume idee e prospettive che ci facciamo quando pensiamo a cinema di finzione, documentario, video sperimentale.

Il regista iraniano ha costruito molti dei suoi film all'interno di quello spazio che è diventato la nostra seconda abitazione, l'automobile. E tutto il suo cinema, nello sforzo di annullare il peso della presenza del regista, la sensazione d'artificio provocato della messa in scena. Il che è poi un modo come un altro per affermarne l'importanza ineluttabile.

I dieci episodi di TEN sono tutti girati all'interno della stessa automobile. Ma non solo: con due inquadrature fisse, una sulla guidatrice, l'altra sui suoi diversi passeggeri. Procedimento, che nella sua enunciazione può anche irritare, che all'inizio della proiezione non manca di sorprendere ed invadere la nostra attenzione. Ma questa scatola chiusa sulla nostra intimità ("inutile tornare a casa, dove non si riesce a discutere", dice la mamma-guidatrice, e divorziata, al figliolo che sarà il solo suo ospite e protagonista non femminile) non è un contenitore astratto, il risultato di un calcolo freddamente intellettuale.

Dal di fuori, attraverso i finestrini, ci giungono i suoni e le immagini della realtà quotidiana, giustamente filtrata, attenuata. E all'interno, costretti nello spazio, scrutati attraverso due soli assi di visione da quell'osservatore "assente" che ha organizzato (ma pure lasciato alla irrinunciabile imprevedibilità del caso) il tutto, sul filo della grande acutezza dei monologhi, dialoghi, riflessioni dettati ai i soliti attori non professionisti, i personaggi non possono che mettersi a nudo. Le loro confessioni, le mutazioni che noi indoviniamo di un loro privato miracolosamente rivelato, diventano il motore che fa progredire il film. Sostituendosi in questo, con una verità fortissima e commovente, alla drammaturgia tradizionale; ai suoi espedienti, in parte consunti.

L'uso trainante della parola, l'organizzazione dei silenzi, quello semplificato dello spazio, quello costretto e quindi estremamente meditato dello sguardo fanno degli incontri apparentemente banali o casuali della protagonista (una sorella, una devota, una prostituta, ecc.) molto di più di uno sguardo acuto, sociale o politico sulla condizione della donna, in Iran o altrove. Aprono spazi sconosciuti (se non, forse, alla pittura o alla letteratura moderna) all'intimità dei personaggi e delle situazioni: un viaggio fra una realtà sempre più invadente ed una interiorità sempre più minacciata della quale non solo il cinema, ma tutti noi, abbiamo sempre più bisogno.


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